La mattina apprendiamo che sono iniziati i combattimenti tra i nazi-fascisti e le nostre formazioni. Decidiamo di ritirarci da pian Frigeròle e di lasciare il gruppo comandato da “Eros”, abbandonando la vallata. Raggiunto il crinale, si offre al nostro sguardo uno spettacolo incantevole: la sottostante Val Grande è tutta ricoperta da una fitta vegetazione. Ma la zona ci è completamente ignota. Durante la lunga marcia da Corio a Cantòira sono sorte tra di noi animate discussioni, causate dalle nostre diverse idee. Alcuni, come Miki e Gegi, sono militaristi accesi; altri come me, come Mario e i fratelli Lunghi, sono contrari ai sistemi gerarchici, burocratici, costrittivi e amano soprattutto l’indipendenza. Come tutti i militaristi, Gegi Parodi afferma che la guerra è una fatale necessità in ogni tempo e luogo. Io gli contrappongo la visione morale e logica della vita, protesa a costruire e non a distruggere. Miki interviene per placare la discussione. – Tant’è – concludo –sia per il guerriero che per il filosofo, parlare o discutere è inutile. Ciò che importa è la ricerca interiore della verità … E’ impossibile conciliare l’inconciliabile, quando ci si basa su principi opposti … né si convince la gente privandola della libertà o, addirittura, della vita. – Poi, ristabilito il silenzio, riprendiamo la marcia. Faccio la conoscenza di Grìša, un tozzo siciliano dalle mascelle pronunziate, dagli occhi nerissimi e dai baffetti alla Clark Gable che, durante la marcia ci ha aiutato a trasportare i nostri fardelli. Prima di raggiungere le formazioni partigiane, lavorava come calzolaio a Torino. Lo conosco da poche ore e già mi si mostra particolarmente affezionato. Grìša, nelle brevi soste, rievoca qualche episodio della sua vita da borghese nella capitale piemontese: – Sotto l’influenza della mia amata, mi sembrava che i marciapiedi si allargassero smisuratamente sotto i miei piedi. – E mentre il siciliano ricordava le sue avventure torinesi, io, assorto nel pensiero dal pericolo che ci incalzava, mi preoccupavo della corporeità del nostro essere; avrei voluto che il peso crescente del mio corpo, al contrario, diminuisse per consentirmi una marcia più rapida e uno spirito più sgombro dai miraggi del bere, del mangiare, del morire… Intorno a me i garibaldini piemontesi si abbandonavano frequentemente alle loro grottesche espressioni dialettali, quali boba, bin, dìu flipa, dìu spinàs, una delle più appetitose di quel vernacolo. Tali divagazioni verbali venivano, di quando in quando, interrotte da spari e colpi di mortaio, mentre la nebbia stava salendo a ondate fino a raggiungere la sommità della montagna… Come svegliandomi da un lungo sonno, mi accorgo di aver perso il contatto con i miei compagni… sono avvolto dalle nubi, mentre spari e scoppi si fan più frequenti… vorrei scorgere nei volti di Mario Giolli, di Miki, dei fratelli Lunghi il riverbero dei miei cari e della mia Genova… trascorre una lunga mezz’ora di trepidazione. Finalmente, dalla nebbia persistente vedo emergere ombre che salgono stancamente verso la vetta: sono partigiani che si ritirano, figure esauste, corpi estenuati che stringono ancora le armi. Lontano rimbomba il cannone nemico, la cui eco, come una lugubre successione di ondate, si ripercuote nelle vallate per spegnersi tra le cime. Continuo a trascinarmi sotto il peso del mio zaino che, oltre agli effetti personali, contiene alcuni libri (le Poesie di Vincenzo Cardarelli e la raccolta Ed è subito sera di Salvatore Quasimodo ecc.). A volte mi sembra di trovarmi coinvolto nella bufera della guerra civile, mio malgrado, rassomigliando un poco al Pierre Bolkonsky di tolstojana memoria… Ad un tratto, dalla bianca coltre della nebbia, m’appare il volto sorridente di Miki e, poco dopo, rivedo tutti gli altri amici. Raccolgo le energie superstiti e mi precipito ad abbracciarli, felice e commosso. Sono tutti salvi. Rami e Harbig, seguiti dal volenteroso Grìša, fanno una perlustrazione gastronomica ad una grangia. La missione si conclude felicemente, con la distribuzione di una discreta razione a testa di pane, salame, toma (formaggio piemontese) e vino. Inviamo due esploratori in avanscoperta per accertarci che la località non sia in mano ai nazi-fascisti. Avuta risposta rassicurante, scendiamo a valle, diretti verso Cantòira. Abbiamo marciato, con qualche breve sosta, dalle 5,30 del mattino alle 15. Troviamo rifugio in una cascina dove ci sprofondiamo subito in un piacevole sonno.
Sogno d’essere tornato a Genova, ormai liberata, di aver aperto, in società con l’amico Luigi Arscone, un negozio di dischi, di radiogrammofoni e di musica. Il negozio è suddiviso in vari locali: uno è destinato all’audizione della musica classica; uno all’audizione della musica operistica; un terzo all’ascolto della musica leggera. Una sala è riservata alle radio e ai grammofoni; un’altra agli spartiti e ai libri d’argomento musicale… Sogno ancora di dirigere una rivista quindicinale di critica e di storia della musica… Sogno di predisporre le apparecchiature per effettuare la registrazione della mia musica… Ora un’invisibile orchestra sta eseguendo la mia “prima Sinfonia”, dedicata a M. … poco dopo, la “seconda Sinfonia”, dedicata a Luigi Arscone[1]… quindi le mie Sinfonie, dedicate alla mamma, alla nonna Emilia, al papà, a Lauretta, a Mario Giolli, a Miki, a Luigin Bocciardo, mio compagno di infanzia. E, per finire, come aveva fatto Mahler, ecco la mia “decima Sinfonia”. Quest’ultimo lavoro avevo dedicato, nel mio sogno, al carissimo amico Menotti Lungonelli[2]. Al mio risveglio, stendo un elenco dei libri che spero poter acquistare al mio ritorno. E mentre sogno egoisticamente, con la brama insaziabile del collezionista, nel mondo reale, sta accadendo un fatto allarmante. Un carro armato è penetrato nella nostra zona, percorrendo indisturbato la strada a fondo valle. Siamo stupiti dal fatto che nessuno abbia dato l’allarme. Poco dopo, sopraggiunge una nostra staffetta, in moto, che ci tranquillizza: il cingolato è guidato da alcuni soldati cecoslovacchi che hanno disertato dall’Esercito tedesco per passare dalla nostra parte. Ci portano… in regalo il loro “tigre” con il suo prezioso cannoncino. Appena scesi dal mezzo corazzato, in perfetta divisa germanica ma con il leone rampante di Boemia dipinto sull’elmetto, cercano di fraternizzare con noi. Uno di essi, parlando un italiano abbastanza comprensibile, ci racconta la sua storia. Strappato dalla propria famiglia, venne inviato in un campo di punizione ed ivi trattenuto per un anno e mezzo. Successivamente, i tedeschi, con i loro metodi persuasivi, lo spedirono in Italia come carrista. Presentatasi la prima occasione, disertò dalla Wehrmacht (Forze armate tedesche). Il ceco ci informa che a Praga, fin da ragazzo, si imparano facilmente ben quattro lingue, poiché la “Città d’Oro” è divisa in tre grandi rioni: in uno si parla polacco e russo, in un altro l’idioma corrente è l’ungherese e nel terzo ci si intende in tedesco. Il soldato ceco, che balbetta un italiano stentato, anche grazie ad una mimica eloquente e all’ausilio d’un vocabolarietto, ci offre una sigaretta e, accendendosi la sua, ci racconta che anche a Praga è diffusa la superstizione secondo la quale, quando si accende una sigaretta in tre, il più giovane è prossimo alla morte! Un altro ceco, maresciallo di Sanità, che ha vissuto per molto tempo in Russia, ci fa sapere che a quella popolazione piace molto la polenta condita con latte, burro, zucchero e cacao. I russi consumano abitualmente minestre composte esclusivamente di farina. Queste notizie gastronomiche mi hanno fatto ricordare i temibili piatti “lituani” della signora Antonietta Raphaël, preparati col farro d’orzo, grano che M., con il mio aiuto, comperava in gran quantità in un negozietto in corso Buenos Ayres, a Genova. Durante le non facili conversazioni con i soldati boemi, non ho potuto resistere alla tentazione di rievocare nomi e melodie di musicisti quali Smétana e Dvořàk, suscitando i loro sorrisi compiaciuti. La conversazione era frequentemente interrotta da silenzi, durante i quali ci osservavamo con un’espressione triste, malinconica. Sentivamo incombere il pericolo nazi-fascista e ci rendevamo conto che le nostre diverse culture ci tenevano ancora lontani; solo la musica, che tutti unisce, ci accomunava in un sentimento di fraternità. Pensavamo a tanti nostri fratelli, italiani, tedeschi, boemi, che resi strumento di oppressione e violenza, stavano dandoci la caccia, per annientare con noi le residue speranze di libertà. Mentre eravamo assorti in tali pensieri, cominciò a tuonare il cannone, che annunziava l’inizio di un rastrellamento. Ma il pericolo di tale operazione venne rinviato di alcuni giorni e tutto, per il momento, ritornò alla calma e ai silenzi armoniosi delle montagne.
Miki mi riappare: mani sui fianchi, volto dai lineamenti ebraici, occhi ingenui, cuore di fanciullo, spirito avventuroso e a volte incosciente, sempre pronto ad esaltarsi per il giuoco dei soldatini, ormai non più di stagno o di carta. A volte pensavo di aver riposto in lui una eccessiva fiducia. Quel simpatico ragazzo era un piccolo Don Chisciotte, convinto di compiere atti di straordinario valore, ma inconsapevole di abbandonarsi a debolezze che avrebbero potuto facilmente compromettere la sua stessa esistenza. […] Miki mi aveva lasciato una copia di alcune sue poesie, ispirate ed efficaci, che purtroppo ho smarrito.
[1] Violinista e imprenditore meccanico, mi fece conoscere le più belle opere violinistiche del periodo romantico quali i Concerti di Wieniawsky, di Max Bruch, di Mendelssohn, di Ciaikowsky, donandomene i dischi.
[2] Studioso di fisica e matematica e mio compagno al liceo “Galileo”, scrisse sotto lo pseudonimo di Federico Arsani la raccolta poetica “Idilli” (1940-1950), pubblicati con una mia prefazione dall’Editore Bertello – Borgo San Dalmazzo (Cuneo) nel 1952.