Dal diario di Antonio Giolitti

Aix-les-Bains

[…] Regna sempre una grande confusione circa la sorte futura dei partigiani italiani rifugiati in Francia. Imperversano direttive svariate e contraddittorie. Mi auguro che gli sforzi che farò a questo proposito a Roma valgano a chiarire le idee e ad unificare le attività. (promemoria: P. Greoble, Lyon, Comitati Ital., Val d’Isèr, Castellane, Nizza, Marsiglia). Intanto tre dei nostri migliori garibaldini sono partiti oggi per Val d’Isère decisi a rientrare in Italia. Ho dato loro una lettera per i compagni di Torino.

Ieri sono partiti altri due dei nostri, i due studenti di medicina, Valjean Grassini ed Emilio Grimaldi, due bravi ragazzi. Sperano di riuscire a imbarcarsi per l’Italia liberata. Grassini, specialmente, aveva delle belle doti di sincerità, lealtà e intelligenza.

Antonio Giolitti, Di guerra e di pace: Diario paritigiano (1944-45), a cura di Rosa Giolitti e Mariuccia Salvati, Donzelli editore, Roma, 2015, pp. 59-60.

A Lione

Aix-les-BainsLione

Salutiamo “Paolo” (Antonio Giolitti), sempre degente all’Ospedale (“Hotel Europe”) e il suo salvatore “Francone” (Franco Borla), al quale, a seguito delle gravi ferite riportate, sono state amputate entrambe le gambe.

Salutiamo pure il signor Carnevale, che mi regala un vestito giallo, da me successivamente indossato per molto tempo.

Un addio anche a Cuccato.

Al “Pavillon”, durante l’attesa del treno, un prigioniero tedesco ci osserva lungamente e infine scoppia in una lunga risata. Ci chiediamo se sia per scherno, per invidia, o per presagio…

Partiamo da Aix-les-Bains alle 12,30.

Sopportando un viaggio reso terribile dal freddo e dalle continue dispute con Gras­sini, giungo a tarda sera a Lyon, dopo aver transitato per Grenoble, la pa­tria di Stendhal, che mi è apparsa triste e infossata tra alte montagne.

Nel giardino antistante la Stazione ferroviaria, abbandono il mio bastone, compagno fedele e prezioso sostegno durante la traversata delle Alpi, sul qua­le avevo inciso il nome di “M.”.

Otteniamo dal “Bureau de la Place” un’autorizzazione per dormire all’ “Hô­tel Porchet”.

Trascorriamo una nottata pressoché insonne, a causa di un freddo polare.

Quando ci alziamo e guardiamo dalla finestra, scopriamo che Lyon è ricoperta da una spessa coltre di neve.

Di   buon mattino, ci rechiamo al “Bureau de la Place” per ottenere il lascia­passare alla volta di Marsiglia, ma, durante la mattinata, veniamo rinviati da un “bureau” all’altro, senza riuscire nel nostro intento.

Durante il pomeriggio, faccio una passeggiata, da solo, per le vie di Lyon, dopo aver litigato ancora una volta con Grassini.

Lione mi appare come una città molto grande, attraversata da due imponenti fiumi, con bei palazzi, belle chiese e dotata perfino di una piccola torre Eiffel.

Sulla Saona e sul Rodano erano stati gettati bellissimi ponti che i Tedeschi, in ritirata verso il Nord, hanno fatto saltare; solo alcuni sono stati resi tran­sitabili provvisoriamente dal Genio francese.

Continua a nevicare. Nell’attesa che giunga il momento di ritirare il “lasciapassare” per Marsiglia, sempre solo, mi spingo fin sotto i porti­ci dell'”Opéra”. Vi sono esposti i programmi delle rappresentazioni di quei giorni: “Lakmé” di Délibes – “Werther” e “Manon” di Massenet e “Il Barbiere di Siviglia” di Rossini.

Su un manifesto dell'”Opéra” leggo:

“Spectacle entièrement réservé à l’Association: Art et Théâtre pour tous”: pas de locations: “Lakmé”   (Gallica contraddizione).

Dopo aver finalmente ottenuto dal “Bureau de la Place” il biglietto ferro­viario di 1ª classe per il tragitto Lyon-Marseille, me ne vado al cinema ove proiettano un film musicale: “Cento uomini e una ragazza (in francese: “Deanne Durbin et ses boys”, con Deanne Durbin e il celebre direttore d’orchestra Leopold Stokowsky). Ho così la gioia di ascoltare la “2ª Rapsodia Ungherese” di Franz Liszt e il Preludio atto III del “Lohengrin” di Richard Wagner, nella smagliante esecuzione della Filarmonica di Filadelfia, nonché la “Toccata e Fuga in re min.” di J.S.Bach, nella splendida interpretazione pianistica di Stokowsky.

All’uscita dal cinema, acquisto in una cartoleria – pochi istanti prima della chiusura del negozio – alcune belle cartoline a colori, riproducenti ritratti di Brahms, Chopin, Mozart e Schubert.

Ritorno all’ “Hôtel Porchet”, ove pernotto.

A Luigi

Natale, 1944

Caro Luigi[1], ricordi gli anni felici in cui ci incontravamo nella matti­nata di questo giorno, caro alle tradizioni familiari?

Dopo avermi stretto affettuosamente la mano, mi offrivi – come di consueto-una “macedonia”[2].

Tra le nuvolette di fumo, conversavamo animatamente su argomenti musicali e sugli avvenimenti più importanti del giorno.

Verso il mezzodì, ci lasciavamo per i dolci obblighi gastronomici che ave­vamo con le nostre mamme e famiglie.

E all’imbrunire, tu venivi immancabilmente a casa mia[3]  ad ascoltare le riproduzioni discografiche del Concerto n.1, op. ll di Chopin – dono di mio padre – o il Concerto n.2 di Wieniawsky, che tu mi avevi regalato.

Mio caro amico, anche questa mattina sono con te, malgrado ci separino centinaia di chilometri.

Vorrei raccontarti le mie vicende in terra di Francia, passeggiando      – se­condo le nostre abitudini – lungo via Sturla… ma sono solo e tutto è muto e straniero intorno a me.

La nostra bella armonia è interrotta e chissà quando ci sarà consentito di poterla ricomporre.

Emilio.


[1]                Luigi Arscone.

[2]              Sigaretta italiana.

[3]              In via Borgoratti, 19 int. 3 a Genova san Martino d’Albaro.

Una lettera da Henri

Aix-les-Bains

Avevo ormai perso la speranza di rivedere il mio piccolo orologio da tasca, smarrito all’Ospedale Militare di Chambéry, quando ricevo al “Beau Site” di Aix la seguente lettera dell’amico Henri Jacubovič:

Die, le 23.11.44

Cher ami Emilio!

Je t ‘annonce une nouvelle qui te fera surement grand plaisir. Figure-toi, lundi matin dans le train à Chambéry, en mangeant les biscuits qui etaient dans ma capote, j’ai trouvé ta montre au fond de la poche.

Malheureusement je n’ai trouvé personne dans la gare qui pouvait te la rapporter. J’étais obligé de la garder sur moi pendant mon voyage qui durait 2 jours.

En rentrant chez moi, j’ai fait de suite un petit colis, en mettant ta montre dans un paquet de pansement, pour qu’elle ne se casse pas.

Je l’ai envoyé “recommandée” par la poste, et je te prie, par retour du courrier, de me dire si tu l’as bien reçu.

Comment vas ta santé? As-tu encore des coliques? J’espère que tu es de nouveau complètement guéri. Moi je tousse encore beaucoup les nuits.

Es-tu encore dans la chambre 40?

Madame Baudoin et Melle Soudier te soignent-elles toujours bien; et les parties de belotes se font naturellement sans moi maintenant. Je regrette beaucoup votre compagnie à tous et surtout la tienne, cher Emilio, car j’ ai passé des bonnes journées avec vous.

L’histoire de la Musique russe avance-t-elle?

“Tu vas te dire, que je suis bien curieux, mais je m ‘interessais beaucoup à toi.

“Pour aujourd’hui je te laisse en t ‘envoyant une bonne poignée de main.

ton ami Henri

“Bien de choses à Madame Baudoin et M.lle Soudier et toutes mes connaissances de l’Hôpital.

Voici mon adresse:

Sous-lieutenant Jacuboviz Henri

20, Ave. Sadi Carnot, 20

DIE  (Drôme)”

p.s. Qualche giorno dopo, ricevetti per posta il mio amato orologino, che Jacubovič aveva spedito al mio indirizzo presso l’ospedale militare di Chambéry e che mi venne smistato all’ospedale “Beau Site” di Aix-les-Bains. Rivolgo qui il mio riconoscente, affettuoso pensiero per l’amico Henri, ch’ebbe modo di dimostrarmi la sua gentilezza danimo e la sua generosità, profondamente unito a me dal comune amore per la Musica classica. Grazie a lui ricuperai il piccolo tesoro del mio orologino, ma il tempo e la distan­za finirono per farmi perdere per sempre il prezioso legame della sua Amici­zia.

La principessa Pallavicini

Aix-les-Bains

Sempre ricoverato al “Beau Site” di Aix, venni in­vitato, insieme a due garibaldini piemontesi, come me convalescenti, a recarci da una gran Signora che desiderava avere notizie sull’Italia e su Genova.

Percorremmo una strada a nord est della Città e giungemmo ad una bella vil­la in stile “liberty”: era la residenza savoiarda della ricchissima principes­sa Pallavicini.

Un cameriere in livrea ci introdusse in una sala lussuosa, pregandoci di attendere la sua padrona.

Ogni tanto, volgevo lo sguardo ai miei compagni, come me ridotti in uno stato miserando, con i vestiti a mal partito e i visi pallidi e smunti.

Francamente, tutti e tre speravamo in una buona accoglienza, allietata magari da un bicchiere di vino, da un bel pezzo di pane e da qualche franco.

Finalmente giunse la principessa Pallavicini, la quale ci degnò di uno sguardo altezzoso e sprezzante.

– So che tra di voi c’è un genovese, dal quale vorrei avere notizie di Genova e in particolare del mio palazzo in Via Balbi. –

Mi feci avanti e le risposi: – Ho lasciato Genova dalla metà dello scorso giugno e quindi non posso   fornirle notizie recenti.    

Posso tuttavia precisarle che la Città è stata ripetutamente e gravemente bombardata dagli Alleati e che le condizioni di vita dei Genovesi sono molto precarie. Via Balbi è ostruita da enormi cumuli di macerie; i teatri “Carlo Felice”, “Paganini”, “Margherita”, “Genovese”, distrutti; l’Ospedale “Duchessa di Galliera” colpito dal bombar­damento navale della flotta francese.

Quanto al suo palazzo, situato presso la “Nunziata”, esso è stato danneg­giato sul lato destro   dallo stesso bombardamento aereo che ha distrutto la navata sinistra della chiesa. –

La principessa rimase muta e cogitabonda per qualche istante. Poi con lo stesso atteggiamento altezzoso con il quale ci aveva ricevuti, ci congedò con un cenno della mano.

Uscimmo dalla lussuosa residenza, sconfortati.

Io, in particolare, come genovese mi sentii umiliato, non avendo ottenuto il benché minimo attestato di simpatia o di solidarietà da quella povera prin­cipessa milionaria, completamente refrattaria alle sventurate condizioni di chi si era battuto per la libertà d’Italia. Certo, aveva ben altro da pensare, as­sorbita dal pensiero di conservare e di tutelare i suoi beni disseminati a Ge­nova, a Roma, a Vienna, ad Aix-les-Bains e altrove…

Nel crepuscolo della sera, mentre gli ultimi raggi del sole, varcando le alte montagne che circondavano Aix, illuminavano i nostri cenci, i nostri volti, le nostre speranze, ripensavo a quelle “femmes de bordel” che, a Chambéry, donava­no vino, dolci, sigarette ai ricoverati d’ogni colore, generosamente. Quelle erano vere signore e non questa “pela-vicini”[1].


[1]              Nel settembre del 1990, la rete 3 della Rai presentò un’inchiesta condotta da Ludovica Ripa di Meana su “Gli Intrattabili” e dedicata a Elvina Pallavicini. Malgrado i molti anni trascorsi, riconobbi immediatamente in quella vecchia la sdegnosa signora conosciuta ad Aix-les-Bains. La Pallavicini, amica di Fini e di Berlusconi, venne presentata da Ludovica Ripa di Meana come una generosa Patriota, una valorosa anti­fascista, un’audace Partigiana, che tante prove di liberalità avrebbe dato a consolazione degli Italiani! Povera verità, povera principessa! Povera Rai! Povera Italia turlupinata!

Mohamed

Aix-les-Bains

Sono ormai alcuni mesi che soffro la fame. In ospedale, la mia alimenta­zione è stata appena sufficiente per sopravvivere. Non immaginavo, però, che la prima volta che avrei potuto saziarmi sarebbe stata grazie ai Musulmani, che mi avrebbero invitato alla festa del loro Natale. Artefice di questo in­vito, Mohamed Ben Drahim, un ragazzo marocchino, esile e malato, che dimo­strava non più di diciotto anni.

Mohamed era degente al “Beau Site” per febbri intestinali. Mattina e sera gli usavo il favore di segnargli qualche linea di febbre in più, consentendogli così di essere curato e di potersi riprendere, per quanto possibile, dalle fa­tiche sopportate durante la campagna d’Italia.

Mohamed mi comunicò, soddisfatto, che, in via del tutto eccezionale, avrei potuto partecipare all’importante festa musulmana. Ne aveva ottenuto il permesso da suo zio, un corpulento sergente marocchino, autorevole capo religioso.

Fu così che, il 29 novembre, Mohamed mi condusse nel grande salone del “Beau Site”, presso le cui pareti erano accovacciati i degenti marocchini dell’ospe­dale. Tutti erano in attesta dell’arrivo del generale francese Y.Z., per ini­ziare i festeggiamenti.

Mohamed mi disse che solo due europei avrebbero preso parte alla loro festa: il generale perché marocchino, essendo nato in Marocco, ed io perché in un momento difficile gli avevo dimostrato di essere un suo  vero amico.

Notai che tutti i Marocchini mostravano, con cenni e sorrisi, di sapere del­la mia amicizia per Mohamed.

Davanti ad un grande camino, infilzato in un enorme spiedo, girava, su un fuoco ben dosato, un intero montone. Due cuochi marocchini ne curavano la cot­tura, insaporendolo con spezie e versandovi sopra il sugo, che colava dalla carne in un ampio bacile, collocato sotto lo spiedo e lambito dal fuoco continuamente alimentato con rami e fascine.

D’improvviso si creò un assoluto silenzio.

Entrò il generale, attorniato da alcuni graduati marocchini, tra i quali lo zio di Mohamed. Tutti quelli che erano in condizione di farlo, si alzarono in piedi e si misero sull’attenti. Era uno spettacolo suggestivo vedere quei soldati dal volto bruno, dal capo coperto dai tipici turbanti, dalle caratteri­stiche divise e dai curiosi mantelli.

Tutti i Marocchini fissarono con gravità il nuovo venuto, dal volto pallido e dai lineamenti aristocratici e il  generale era visibilmente emozionato al cospetto di tale assemblea.

Tutti si prostrarono, chinando il capo fino a terra, per una breve preghiera. Quindi, appena i Marocchini si furono rialzati, lo zio di Mohamed si fece consegnare dai due cuochi due spiedini nei quali erano infilzati tanti pezzetti di interiora del montone, crudi e sanguinolenti. Quindi li presentò al generale invitandolo a cibarsi di quella carne. Il poveretto ne avrebbe fatto volentieri a meno, ma non poté esimersi da quell’invito, mentre gli occhi di tutti i Marocchini erano puntati verso di lui.

Toltosi il “képi”, il generale inghiottì, con evidenti sforzi, alcuni pezzetti di interiora.

La festa aveva così inizio.

Alcuni Marocchini distribuirono piatti e posate. Poco dopo, in sostitu­zione del tipico “couscous”, venne servito del cavolfiore minutamente sminuz­zato e condito con sale e burro, accompagnato da un bel pezzo di montone, mol­to condito, che rappresentava la “tragine”.

Mangiammo in piedi, secondo l’usanza dei Musulmani. Solo alcuni feriti, sdraiati in barella, poterono sottrarsi a questo inconveniente. Quindi, ci fu servito del caffè e vennero distribuite pipe e sigarette.

Mentre fumavo una “Troupe”, raccontai a Mohamed un episodio simile a quello al quale stavamo partecipando.

Era capitato al mio padrino maggiore Carlo Garbieri , durante la conquista italiana dell’Etiopia.

Il maggiore Garbieri aveva occupato con i suoi Ascari alcuni grossi villaggi etiopi, quando si vide venire incontro alcuni notabili della zona che, volendo fare atto di sottomissione agli Italiani,desideravano invitare ad un banchetto il comandante e i suoi ufficiali.

Il maggiore Garbieri accettò e, poco dopo, con i suoi ufficiali, si trovò dinnanzi ad una tavola circolare, alla quale prendevano posto molti Etiopi di rango elevato.

La tavola era ricoperta da una tovaglia inusuale, una sottile sfoglia di fa­rina, cotta a dovere. In mezzo alla tavola venne posto un grosso cumulo di carne ben condita e molto piccante.

Ogni commensale iniziò il pranzo strappando un lembo della tovaglia-sfoglia e pescando con questo ausilio un pezzo di carne. Ben presto il cumulo appetitoso sparì nelle bocche voraci dei banchettanti e la tovaglia si ridusse ad un piccolissimo “centro tavola”.

Mohamed Ben Drahim ascoltò incuriosito quel racconto. Poi, desiderando ren­dersi gradito, mi rivolse le sole parole che aveva appreso nell’Italia meridio­nale, qualche tempo prima, durante la battaglia di Montecassino.

–   Mangiarina… farina… signorina…- Tutto qui il suo italiano.

Poi, nel suo comprensibile francese, mi raccontò le sue peripezie militari nel sud della Penisola.

“Un giorno, il Comando francese ci ordinò di attaccare alla bajonetta le formidabili posizioni tedesche a Montecassino.

“I nostri assalti si infransero sotto il tiro dei tedeschi.

“Ben pochi Marocchini sopravvissero… Io ebbi la fortuna di essere ferito in modo non grave.

“Il Comando francese avrebbe continuato a far massacrare tutte le truppe africane di cui disponeva, se non fossero sopraggiunti gli Americani. Questi ordinarono di sospendere le operazioni della fanteria, per sottoporre Monte­cassino a tremendi bombardamenti da terra e dal cielo. Il martellamento durò intere giornate e finì per piegare i Tedeschi. Quando gli Alleati occuparono l’antico Monastero, trovarono solo rovine….

“Io devo la vita agli Americani…”

Il buon Mohamed ben presto doveva lasciarmi, avendo ottenuto una licenza di convalescenza che gli consentiva di ritornare in Marocco.

Al momento della partenza, mi abbracciò e pianse come un bambino.

Mi regalò alcuni pacchetti di sigarette “Troupe”, dicendomi: – Io non fumo, sono troppo giovane e ammalato. Godetevele voi e, qualche volta, pensate al vostro amico Mohamed. . . ma, prima di lasciarmi, ripetetemi ancora quella poesia genovese con la quale mi avete fatto tanto ridere.

Ed io ripetei al buon ragazzo:

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Antonio Giolitti

Aix-les-Bains

Faccio la conoscenza del partigiano italiano Valjean Grassini, amico di Giolitti. Esco dall’ospedale con lui, alla scoperta del centro di Aix-les-­Bains.

Dopo una breve visita ad Antonio Giolitti, degente nel principale ospedale albergo di Aix (l’Hopital Militaire “Europe”) che è in attesa di un nuovo intervento al femore, facciamo un rapido giro panoramico della bellissima località. Rimango colpito dalle ville sfarzose, dai graziosissimi villini, dagli imponenti alberghi che, in tempo di pace, avevano ospitato personalità del mondo politico, economico, culturale.

Grassini mi mostra la Villa del re del Belgio e quella del re d’Inghilterra. Gli alberghi di lusso, come l'”Hôtel Splendide” e l'”Hôtel Royal et Excelsior” sono chiusi. Gli altri, di categorie inferiori, sono adibiti ad ospedali militari.

Anch’io, come Valjean Grassini, sono ricoverato in un bell’albergo, il “Beau Site” ed ora me ne sto passeggiando per le vie di Aix, con una guida che mi illustra con vivacità le attrattive della zona.

Ad un tratto, incontriamo alcuni prigionieri tedeschi, in perfetta divisa, ma con un grosso PG (= Prisonnier (de) Guerre), dipinto sulla schiena. Svolgono la­vori di giardinaggio, trasportano sacchi di patate, legname e materiali vari da alcuni depositi della sussistenza militare ai vari alberghi-ospedali. Camminano con molta compostezza e senza alcuna guardia che li controlli.

Penso:   a volte il caso fa qualche inaspettato regalo agli sventurati come me: non avrei mai immaginato di conoscere località come Chambéry, come Aix-les­-Bains, come il lago del Bourget, che presto conto di visitare, quel lago che ispirò al poeta romantico Alphonse de  Lamartine il celebre “Lac”.

Ritornato in ospedale, da una pubblicazione turistica apprendo che Aix è abitata da quasi 18.000 Aixois. Posta tra il lago del Bourget e il monte Revard, la celebre località, situata a 250 m. sul livello del mare, è nota – a quanto si dice – da 4000 anni!

Le acque termali di Aix, “Aquae Sestiae”, sono state scoperte dagli antichi Romani. Esistono ancora nella zona numerose vestigia di quell’epoca: le Terme (con i bagni romani, le grotte e le sorgenti) hanno il nome di “Aquae Gratia­nae” (dal nome dell’imperatore Graziano).

Ad Aix esiste un Museo lapidario con belle statue e resti romani. Tra le cose notevoli: il Museo Faure, con ricordi di Lamartine, con una sala dedi­cata al sommo scultore Auguste Rodin, e con una bella collezione di tele impressionistiche.

Avrei desiderato visitare l’Abbazia reale di Hautecombe, ove sono sepolti molti principi e re di Casa Savoia, ma la sua ubicazione sulla sponda opposta del lago del Bourget non me lo consentirono.