Mohamed

Aix-les-Bains

Sono ormai alcuni mesi che soffro la fame. In ospedale, la mia alimenta­zione è stata appena sufficiente per sopravvivere. Non immaginavo, però, che la prima volta che avrei potuto saziarmi sarebbe stata grazie ai Musulmani, che mi avrebbero invitato alla festa del loro Natale. Artefice di questo in­vito, Mohamed Ben Drahim, un ragazzo marocchino, esile e malato, che dimo­strava non più di diciotto anni.

Mohamed era degente al “Beau Site” per febbri intestinali. Mattina e sera gli usavo il favore di segnargli qualche linea di febbre in più, consentendogli così di essere curato e di potersi riprendere, per quanto possibile, dalle fa­tiche sopportate durante la campagna d’Italia.

Mohamed mi comunicò, soddisfatto, che, in via del tutto eccezionale, avrei potuto partecipare all’importante festa musulmana. Ne aveva ottenuto il permesso da suo zio, un corpulento sergente marocchino, autorevole capo religioso.

Fu così che, il 29 novembre, Mohamed mi condusse nel grande salone del “Beau Site”, presso le cui pareti erano accovacciati i degenti marocchini dell’ospe­dale. Tutti erano in attesta dell’arrivo del generale francese Y.Z., per ini­ziare i festeggiamenti.

Mohamed mi disse che solo due europei avrebbero preso parte alla loro festa: il generale perché marocchino, essendo nato in Marocco, ed io perché in un momento difficile gli avevo dimostrato di essere un suo  vero amico.

Notai che tutti i Marocchini mostravano, con cenni e sorrisi, di sapere del­la mia amicizia per Mohamed.

Davanti ad un grande camino, infilzato in un enorme spiedo, girava, su un fuoco ben dosato, un intero montone. Due cuochi marocchini ne curavano la cot­tura, insaporendolo con spezie e versandovi sopra il sugo, che colava dalla carne in un ampio bacile, collocato sotto lo spiedo e lambito dal fuoco continuamente alimentato con rami e fascine.

D’improvviso si creò un assoluto silenzio.

Entrò il generale, attorniato da alcuni graduati marocchini, tra i quali lo zio di Mohamed. Tutti quelli che erano in condizione di farlo, si alzarono in piedi e si misero sull’attenti. Era uno spettacolo suggestivo vedere quei soldati dal volto bruno, dal capo coperto dai tipici turbanti, dalle caratteri­stiche divise e dai curiosi mantelli.

Tutti i Marocchini fissarono con gravità il nuovo venuto, dal volto pallido e dai lineamenti aristocratici e il  generale era visibilmente emozionato al cospetto di tale assemblea.

Tutti si prostrarono, chinando il capo fino a terra, per una breve preghiera. Quindi, appena i Marocchini si furono rialzati, lo zio di Mohamed si fece consegnare dai due cuochi due spiedini nei quali erano infilzati tanti pezzetti di interiora del montone, crudi e sanguinolenti. Quindi li presentò al generale invitandolo a cibarsi di quella carne. Il poveretto ne avrebbe fatto volentieri a meno, ma non poté esimersi da quell’invito, mentre gli occhi di tutti i Marocchini erano puntati verso di lui.

Toltosi il “képi”, il generale inghiottì, con evidenti sforzi, alcuni pezzetti di interiora.

La festa aveva così inizio.

Alcuni Marocchini distribuirono piatti e posate. Poco dopo, in sostitu­zione del tipico “couscous”, venne servito del cavolfiore minutamente sminuz­zato e condito con sale e burro, accompagnato da un bel pezzo di montone, mol­to condito, che rappresentava la “tragine”.

Mangiammo in piedi, secondo l’usanza dei Musulmani. Solo alcuni feriti, sdraiati in barella, poterono sottrarsi a questo inconveniente. Quindi, ci fu servito del caffè e vennero distribuite pipe e sigarette.

Mentre fumavo una “Troupe”, raccontai a Mohamed un episodio simile a quello al quale stavamo partecipando.

Era capitato al mio padrino maggiore Carlo Garbieri , durante la conquista italiana dell’Etiopia.

Il maggiore Garbieri aveva occupato con i suoi Ascari alcuni grossi villaggi etiopi, quando si vide venire incontro alcuni notabili della zona che, volendo fare atto di sottomissione agli Italiani,desideravano invitare ad un banchetto il comandante e i suoi ufficiali.

Il maggiore Garbieri accettò e, poco dopo, con i suoi ufficiali, si trovò dinnanzi ad una tavola circolare, alla quale prendevano posto molti Etiopi di rango elevato.

La tavola era ricoperta da una tovaglia inusuale, una sottile sfoglia di fa­rina, cotta a dovere. In mezzo alla tavola venne posto un grosso cumulo di carne ben condita e molto piccante.

Ogni commensale iniziò il pranzo strappando un lembo della tovaglia-sfoglia e pescando con questo ausilio un pezzo di carne. Ben presto il cumulo appetitoso sparì nelle bocche voraci dei banchettanti e la tovaglia si ridusse ad un piccolissimo “centro tavola”.

Mohamed Ben Drahim ascoltò incuriosito quel racconto. Poi, desiderando ren­dersi gradito, mi rivolse le sole parole che aveva appreso nell’Italia meridio­nale, qualche tempo prima, durante la battaglia di Montecassino.

–   Mangiarina… farina… signorina…- Tutto qui il suo italiano.

Poi, nel suo comprensibile francese, mi raccontò le sue peripezie militari nel sud della Penisola.

“Un giorno, il Comando francese ci ordinò di attaccare alla bajonetta le formidabili posizioni tedesche a Montecassino.

“I nostri assalti si infransero sotto il tiro dei tedeschi.

“Ben pochi Marocchini sopravvissero… Io ebbi la fortuna di essere ferito in modo non grave.

“Il Comando francese avrebbe continuato a far massacrare tutte le truppe africane di cui disponeva, se non fossero sopraggiunti gli Americani. Questi ordinarono di sospendere le operazioni della fanteria, per sottoporre Monte­cassino a tremendi bombardamenti da terra e dal cielo. Il martellamento durò intere giornate e finì per piegare i Tedeschi. Quando gli Alleati occuparono l’antico Monastero, trovarono solo rovine….

“Io devo la vita agli Americani…”

Il buon Mohamed ben presto doveva lasciarmi, avendo ottenuto una licenza di convalescenza che gli consentiva di ritornare in Marocco.

Al momento della partenza, mi abbracciò e pianse come un bambino.

Mi regalò alcuni pacchetti di sigarette “Troupe”, dicendomi: – Io non fumo, sono troppo giovane e ammalato. Godetevele voi e, qualche volta, pensate al vostro amico Mohamed. . . ma, prima di lasciarmi, ripetetemi ancora quella poesia genovese con la quale mi avete fatto tanto ridere.

Ed io ripetei al buon ragazzo:

U dilüvio universale

Tüttu apprêuvu a ‘n settebellu,

u sciù Gin u l’ha faetu sgùbba

e u Gaitan cu-u pügnu au Nellu

u te g’ha scciappou a carrubba.

U dilüviu universale,

sensa l’Arca de Nuè,

l’é soccessu tale e quale:

u sentiéi sempre cuntà.

Sciorte i Giancu, u fraè du Neigru,

u ti dormi cu-u Baciòccu,

ch’u l’ha faètu cu-u Maloccu,

ch’u vegnìva da-u Maroccu,

e u ghe dixe: “Mangiu ün coccu,

se ghe dae ‘n atru peloccu,

ve scivertu e poi ve stoccu

e de vuì ne furmu ün bloccu,

brüttu toccu d’ün taroccu.”

E u Gaitan u ghe rispunde:

“Miaè, Maloccu, andaeve a scunde.

Se staè chi ve fassu e unde,

muniméntu sensa grunde.

E no staeve a piggià e parte,

ché ve sguàru cùmme e carte,

poi ve pendu e bele au collu.

Ou, tegnime, che ghe a mollu!”

E, vedendu ch’a va pesu,

sciorte u Roccu d’in tu mesu:

“Larghi, vitta, sutta, scêggiu!”

E u t’abera ‘n spüu ‘n sce ‘n’êuggiu

ch’u gh’inciastra tütta a micca,

perché drentu gh’ea ‘na cicca.

E mai ciü ghe l’aesan faetu:

“Ou, chi l’é che me la daetu,

che ghe mangiu mi u figaetu!?”

De per l’aia arrìa ‘n pirun, da-a suffitta casse ün mun

e dau rie scciêuppa ‘n sifùn.

Chi succede ün parapiglia,

ae gassêu ghe scappa a bìglia.

Scappa u tappu au barbarescu,

sccêuppa a bira che l’è in frascu.

Xêan pe’ l’aia sgambelletti…

Tüttu au scüu, sensa bricchetti.

Scappa u gattu sutta u bancu,

‘na cuncà t’acciappa u Giancu.

Scappa u tappu a çinque butte

Ch’en andaete a fase futte.

Au spassin ch’u lava e stradde

Gh’han sbraggiou: “Pe ma’ ch’a vadde,

vegnì chi cu’ a maneghetta,

gh’è a disfidda de Barletta!”

“Daeghia là, sun in magetta!”

E u ti a sbatte lì ‘n bitéga.

Drentu sbràggian: “Chi se nega!”

Fêua t’arriva ‘na carega.

Chi l’intoppa u se gh’accuega.

“Nu spunciaè (gh’ho e scarpe noeve)

i ferìi sun ciü de noeve!”

sbràggia u Lippu, u frae du Lüppu

a l’amigu du Pelüccu

ch’u l’ha ‘n êuggiu pin de stüccu, e u l’amiava u tempurale

ch’au dilüviu universale

u se pueiva assumeggià.

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